Ordinanza n. 242 del 2021

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ORDINANZA N. 242

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Tribunale di sorveglianza di Messina, con ordinanza del 13 novembre 2020, iscritta al n. 58 del registro ordinanze 2021, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Udito nella camera di consiglio del 24 novembre 2021 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

deliberato nella camera di consiglio del 25 novembre 2021.

Ritenuto che, con ordinanza del 13 novembre 2020 (r.o. n. 58 del 2021), il Tribunale di sorveglianza di Messina ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nella parte in cui precludono l’accesso alle misure di cui al Capo IV (recte: Capo VI) della stessa legge n. 354 del 1975 ai condannati per i reati elencati nel citato art. 4-bis, comma 1, che non abbiano collaborato con la giustizia a norma del pure citato art. 58-ter;

che, secondo quanto riferito nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo procede riguardo a richieste di concessione dell’affidamento in prova ai servizi sociali (art. 47 ordin. penit.), della detenzione domiciliare (art. 47-ter ordin. penit.) o della semilibertà (art. 50 ordin. penit.), formulate da persona detenuta in esecuzione di una pena inflitta per il delitto di cui all’art. 74, commi 2 e 3, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza);

che nel caso di specie, secondo il rimettente, opera la preclusione stabilita nel comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit., dato che non ricorrono le particolari condizioni indicate nel successivo comma 1-bis, o quelle inerenti alla collaborazione di giustizia rilevante ex art. 58-ter ordin. penit.

che, in punto di rilevanza, il Tribunale assume che, in caso di accoglimento delle questioni sollevate, le istanze difensive potrebbero essere valutate in base ad una diversa disciplina della materia, tale da consentirne un esame esteso al merito, superando la soglia attuale dell’inammissibilità;

che, riguardo alla non manifesta infondatezza delle proprie censure, il rimettente nega che la collaborazione con gli inquirenti possa ragionevolmente essere assunta quale indice esclusivo del distacco del condannato dall’ambiente criminale di provenienza, e dunque quale sola condizione utile per l’accesso alle misure alternative, affermando che le presunzioni assolute sarebbero incompatibili con il «sistema costituzionale»;

che contrasterebbe con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., in particolare, la preclusione in base alla quale, in mancanza di atteggiamenti collaborativi, è impedita al giudice di sorveglianza una valutazione in concreto del percorso rieducativo intrapreso dal condannato;

che la scelta di non collaborazione potrebbe in effetti, nei singoli casi, costituire un segnale di attualità dei collegamenti criminali intrattenuti dal richiedente, ma potrebbe anche essere dovuta ad altri fattori, come il timore di ritorsioni o l’esistenza di legami parentali con le persone che dovrebbero essere denunciate;

che sarebbe inoltre irragionevole, e quindi incompatibile con l’art. 3 Cost., una preclusione estesa in modo ampio ed indiscriminato ad una serie di comportamenti delittuosi tra loro fortemente eterogenei;

che la parificazione del trattamento riguardo a tutte le situazioni evocate contrasterebbe con la necessità che il trattamento esecutivo sia personalizzato, in modo da assicurare la proporzionalità della pena e la sua efficacia rieducativa (sono citate le sentenze di questa Corte n. 149 del 2018 e n. 257 del 2006), così “acuendo” il contrasto della disciplina con l’art. 27, terzo comma, Cost.

che dunque, pur non potendosi negare radicalmente la sua rilevanza, la scelta collaborativa non dovrebbe essere presupposto esclusivo per l’accesso ai benefici penitenziari, così da condizionare risolutivamente l’efficacia rieducativa della pena che, di contro, dovrebbe essere garantita a tutti i condannati;

che la disciplina censurata svelerebbe piuttosto, sempre a parere del rimettente, una ratio di mera sollecitazione delle scelte collaborative, del tutto scollegata dalla fisionomia del reato commesso e dalla concreta qualità del percorso rieducativo intrapreso dall’interessato;

che si profilerebbe, di conseguenza, anche un contrasto con l’art. 24 Cost., e con la relativa garanzia del diritto al silenzio, posta la pressione esercitata sulle scelte processuali dalla consapevolezza, in capo all’interessato, del regime carcerario che conseguirebbe, nella eventuale fase esecutiva del giudizio, alla mancata collaborazione con gli inquirenti (è citata l’ordinanza n. 117 del 2019 di questa Corte);

che il rimettente prospetta inoltre, alla luce della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, prima sezione, 13 giugno 2019, Viola contro Italia, una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., sul presupposto che mai potrebbe essere soppresso il «diritto alla speranza» di un condannato (è citata anche Corte EDU, grande camera, sentenza 9 luglio 2013, Vinter ed altri contro Regno Unito);

che per un verso la Corte di Strasburgo, trattando del cosiddetto ergastolo ostativo, avrebbe confermato che la scelta non collaborativa non può essere considerata sempre sintomatica di perdurante pericolosità (così come quella di collaborazione potrebbe essere dettata da mero opportunismo), e per l’altro verso avrebbe ravvisato, sempre riguardo all’ergastolo ostativo, un contrasto sistemico tra la legislazione italiana e l’art. 3 CEDU;

che la giurisprudenza costituzionale avrebbe riconosciuto l’intollerabilità della presunzione assoluta che regge la norma censurata, con la sentenza n. 253 del 2019, a proposito della concessione dei permessi premio a condannati non collaboranti, e che analogo riconoscimento sarebbe venuto dalla giurisprudenza di legittimità (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, ordinanza 3-18 giugno 2020, n. 18518);

che le considerazioni richiamate dovrebbero implicare, a parere del rimettente, una decisione di caducazione del divieto di accesso ai benefici penitenziari, così da estendere, a cura della stessa Corte costituzionale, gli effetti della sentenza che avrebbe già riconosciuto l’illegittimità del regime ostativo, limitando però la (parziale) rimozione della regola preclusiva alla disciplina dei permessi premio.

Considerato che il Tribunale di sorveglianza di Messina solleva questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848;

che le norme censurate – mediante le quali è precluso l’accesso alle misure di cui al Capo VI della legge n. 354 del 1975 ai condannati per i reati elencati al comma 1 dello stesso art. 4-bis, che non abbiano collaborato con la giustizia a norma del citato art. 58-ter – si fonderebbero su una presunzione assoluta di perdurante pericolosità dei detenuti non collaboranti, già considerata irragionevole dalla giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 253 del 2019), dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (è citata tra l’altro Corte europea dei diritti dell’uomo, prima sezione, sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia), nonché dalla giurisprudenza di legittimità (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, ordinanza 3-18 giugno 2020, n. 18518, cui ha fatto seguito l’ordinanza di questa Corte n. 97 del 2021, successiva al provvedimento di rimessione);

che per effetto della preclusione censurata sarebbe inibita alla magistratura di sorveglianza una valutazione del percorso rieducativo seguito dal condannato, necessaria al fine di garantire l’individualizzazione del trattamento penitenziario, la proporzionalità della pena e la sua concreta finalizzazione rieducativa;

che le norme de quibus implicherebbero una violazione del diritto di difesa, nella declinazione del diritto al silenzio, condizionando le opzioni dell’accusato alla luce del trattamento deteriore che potrebbe determinarsi nella eventuale fase esecutiva del procedimento;

che per le stesse ragioni la disciplina censurata, contrastando con il divieto convenzionale di trattamenti disumani o degradanti, e con il diritto all’equo processo, darebbe luogo ad una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.;

che tutte le questioni sollevate dal rimettente vanno definite nel senso della manifesta inammissibilità, innanzitutto per difetto di motivazione sulla rilevanza;

che, infatti, l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Messina risulta priva di una qualunque descrizione della concreta fattispecie posta ad oggetto del giudizio principale, tanto che non è neppure indicato se le istanze della parte siano state formulate in termini graduati, e quale tra le relative misure sarebbe presa in considerazione, già solo allo scopo di verificarne gli specifici presupposti di ammissibilità (ad esempio, il superamento delle soglie di pena stabilite, ex art. 50 ordin. penit., per l’accesso alla semilibertà), fissati dalla legge a prescindere dal regime ostativo generale cui si riferiscono le censure sollevate;

che, inoltre, l’ordinanza di rimessione prospetta la integrale ablazione (per qualunque reato, tra quelli ricompresi nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., e per qualunque beneficio penitenziario) della presunzione di pericolosità connessa all’atteggiamento non collaborativo del condannato, basandosi sulla motivazione di provvedimenti che, al contrario, hanno censurato solo il carattere assoluto della presunzione medesima, e solo in relazione al permesso premio (sentenza n. 253 del 2019);

che, quindi, l’inammissibilità delle questioni risulta manifesta anche considerando che il relativo accoglimento comporterebbe una vera e propria novità di sistema, azzerando completamente un complesso meccanismo legislativo mirato invece a distinguere, mediante una serie di valutazioni discrezionali, le procedure e i presupposti per l’accesso a benefici penitenziari e misure alternative, sulla base di indici sintomatici, variamente individuati;

che più volte la giurisprudenza costituzionale ha rilevato come interventi di siffatta portata si collochino «al di fuori dell’area del sindacato di legittimità costituzionale» (sentenza n. 252 del 2012), richiedendo il più ampio ricorso all’esercizio della discrezionalità legislativa ed una puntuale individuazione di «modi, condizioni e termini» (sentenza n. 146 del 2021), chiaramente preclusa a questa Corte (ex multis, sentenze n. 103 del 2021, n. 112 del 2019, n. 250 del 2018, n. 277 e n. 81 del 2014 e n. 279 del 2013; ordinanze n. 266 del 2014 e n. 136 del 2013).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale di sorveglianza di Messina con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede dalla Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 novembre 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 13 dicembre 2021.